LA CRITICA   

   

 

                       

           

  Tra sogni a visioni

     IMMAGINI DELL'ALBA

 

Può anche essere vero che i sogni finiscono all'alba, ma in

ogni caso è all'alba che ogni volta si riproduce l'incanto della

visione. Come nel mito della Fenice, uccello magnifico e

favoloso che si leva con 1'aurora dalle acque del Nilo, proprio

come il sole, e che secondo la leggenda, come il sole, si

consuma e si spegne nella notte, per poi rinascere, dalle

proprie ceneri, eternamente ad ogni nuova alba.

La più recente stagione della pittura di Ivano Mazzucchi

appare così sgombra da ogni residuo di trascorse tenebrose 

preoccupazioni, notturne e oniriche, per affondare in più

limpide visioni mattutine; come generata, o forse meglio

germinata, da un dipinto, intitolato non per caso Dopo 1'alba,

con cui si chiudeva la serie degli "Esterni umani", presentato

in limite, ma quasi in margine, alla mostra di Montalcino del

1997.

Come la Fenice del mito, ma ancor meglio come l'airone

purpureo che affonda il mito nella realtà della natura e che

facilmente s'apparenta all'opera al rosso dell'alchimia, all'idea

di una trasformazione che sia anche rigenerazione, dominio

del divenire e del cambiamento, sostenuta da un' energia che

sfugge all'intelligenza a ai pensieri, ma si alimenta di più

profonde sollecitazioni nell'ora del vero sentire.

Così sembra essere il destino di questa pittura, viscerale ed

energica, che si espande e si allenta nella corposità e nella

densità del colore per arricchirsi di luminosità, per acquistare

in serenità e limpidezza della visione. Una pittura che sembra

non soffrire più il sovraccarico di macerazioni interiori e

rovescia la direzione del proprio divenire, dall'interno

all'esterno: non più dunque le impressioni esteriori che si

interiorizzano, ma al contrario una profonda interiorità che

si espande e si trasforma, animando il colore che diventa

materia plastica, e mentre gonfia e si sfalda come 1'aria densa

dell'aurora, tende all'essenziale, a diventare nient'altro che

impasto luminoso. Talvolta sembra trattenere una certa

suggestione del buio, ma l'idea della notte ormai non è più

che una fiammata di polvere nera, che non intacca lo smalto

del colore ma viene piuttosto a sostenere la saldezza della

materia; e non è per caso che se si volessero tentare dei

richiami formali, ad esempio fra le tante esperienze dell'arte

informale, a cui inevitabilmente la ricerca di Mazzucchi porta

a pensare, piuttosto che ad invadere i territori della pittura

ci si potrebbe ritrovare a considerare, almeno per il sapore,

quell'impasto di colori che è stato il fare scultura di Leoncillo.

E' stato scritto di Mazzucchi, e della sua decisione di

"ricominciare" a dipingere dopo i quarant'anni, come di un

naif; definizione ingombrante perché suggerisce una ingenuità

 - e quale artista non lo è? - ma soprattutto perché

richiama un malinteso mito dell'incolto e del primitivo, che per Ivano

      non sembra avere alcuna valenza, se non altro per la sua

Puntuale formazione accademica, ma oltretutto per la sua

lunga esperienza di scenografo, inserito e di successo, per il cinema,

 il teatro, la televisione. Ma forse si è voluto dire della

radicalità di quella scelta che nel 1988 lo porta a "rinnegare"

il mestiere, la città, lo spettacolo, e a scegliere la pittura, la

provincia, la solitudine.

Una scelta lucida e coraggiosa e, se dobbiamo credere agli

esiti del nuovo esordio pittorico, tutt'altro che naif, ma

tribolata e sofferta e arrabbiata fino alle soglie del rancore.

Da dove proverrebbe altrimenti quella pittura esasperata,

sopra le righe come un' invettiva, che si esprime nella serie degli

"Angeli Crocifissi"? Quella pittura che pur rinunciando

a qualunque connotazione narrativa, si accosta per la sua

carica aggressiva, priva di piacevolezze, acida a corrosiva,

all'espressionismo viscerale che sostiene ad esempio l' amara

poetica di Bacon non meno degli elaborati grafismi di

Sutherland.

Perché alla fine bisognerà riconoscere, al di là delle contorsioni

formali, di una certa concitazione, quasi istintiva, della

pennellata, che la ricerca di Mazzucchi si indirizza alla

restituzione di una precisa idea di realtà, un mondo più

sentito che visto, e a volte forse solo intuito, vagamente

percepito. Così se si vuole credere che gli orizzonti di Ivano

siano sostenuti da suggestioni surreali, bisognerà pensare a

 immagini che lievitano dal profondo, a pulsioni arcaiche e

primitive, a riconoscere che il suo "surrealismo" non intende

pagare un tributo mentale alla raffinata tradizione europea

e guarda piuttosto ai feticci di altre paure, agli idoli di altre

speranze, a magari scoprire una certa consonanza con il

surrealismo di impronta caraibica, quello di Matta a di Lam

per intenderci, che a Mazzucchi potrebbe essere diventato

familiare anche il tramite di Gianni Dova.

Quello che ha contato, non appena raggiunto il "buen retiro"

versiliese, è stato comunque lo sforzo di recuperare

velocemente grammatica a sintassi della pittura, che poi ha

significato dimenticare l'abitudine e il gusto per la "messa

in scena" e per la decorazione, il lavoro di scenografo e la

modernità ad ogni costo che inevitabilmente doveva aver

accompagnato la sua formazione, nelle Accademie di Milano

e Torino, tra la fine degli anni Sessanta a l'inizio del successivo

decennio, ma ha significato anche a soprattutto aggiornare

il mestiere, appreso alla scuola di Cesarino Monti a poi al

Liceo Artistico di Carrara, per approdare a un linguaggio

che assecondi l'espressione di realtà interiori senza

l'ingombrante paravento della fedeltà all'oggetto e alle sue

pretese di verità.

Il risultato è, come si può vedere, una figurazione sintetica,

che rinuncia a ogni dettaglio e rinnega ogni connotazione

ornamentale. Non è un caso così che tra i primi approdi di

questa nuova origine della pittura di Mazzucchi ci siano per

  l'appunto gli "Angeli crocifissi", brandelli di figure, dilaniate

e sconvolte, a tuttavia di forte presenza spirituale, invadente

e immanente, e non è un caso che questi tronchi di figure,

mutili come reperti archeologici o sfigurate come l'umanità

del nostro tempo, intendano rappresentare degli "Interni

umani" a cioè si proiettino all'esterno come rappresentazioni

di precise identità interiori.

E poco importa se, nelle intenzioni di Mazzucchi, queste

identità siano quelle di un condottiero o di un artista, di una

sfortunata regina o di un sottile filosofo, di un poeta o di un

profeta, perché quello che conta, al di là dei destini personali,

è l'identità dell'uomo, l'umanità che sopravvive nonostante

tutto o che, come nell'Interno di un nascituro, chiede solo

di poter esprimersi. Perché quello che alla fine prevale nella

pittura di Ivano e proprio questo desiderio di testimoniare

la centralità dell'uomo nonostante tutto, anche alla fine di

un secolo che ha visto il suo corpo oltraggiato e offeso,

proprio come quello del 'Figlio dell'uomo" sulla croce. Ecce

homo, torna a suggerire un pittore: nonostante i corpi dilaniati

dalle bombe, annientati col gas e bruciati nei forni, manipolati

dagli esperimenti genetici, l'uomo, benchè mutilato, umiliato

e offeso oltre ogni limite, resiste, nei suoi sentimenti e nella

sua fede, nella sua individualità e nella sua identità, contorta

e conturbante, impastata del bene a del male, ma vivida e

incancellabile, proprio come l'impasto a la convulsione dei

colori non riesce a cancellarne il peso e il valore cromatico,

soprattutto per le fiammate di rosso che aiutano i gialli, i

bianchi e gli azzurri a sottrarsi alla nichilista e prepotente

attrazione del nero.

Fuggire dall'attrazione, e quindi dal potere di annientamento,

deI nero sembra infatti essere una precisa intenzione del

percorso recente di Ivano Mazzucchi. Se infatti nel passaggio

dagli "Interni umani" ai dipinti con cui si chiudeva nel 1997

la mostra di Montalcino, già era possibile intuire un

allentamento, che è come un preludio alla progressiva

scomparsa, dei toni più cupi, racchiusi nel nero, compatto

e impenetrabile, dei fondi, ora ci è dato di vedere calare sugli

ultimi dipinti una luce nuova, una chiarore d'alba, che

alimenta toni sommessi e tuttavia precisi, di rosa e di azzurro,

e poi sfumature bianche, non più polverose a spente, ma

umide a trasparenti, come le nebbie mattinali che annunciano

il sole. E poi soprattutto le vibrazioni palpitanti dei fondi,

che sembrano ora riflettere ed accompagnare l'impulso vitale,

la viscerale energia, che si sprigiona a si espande dal cuore

del dipinto.

E' un percorso apprezzabile pienamente soprattutto nelle

incisioni, dove l'assenza del colore costringe il pittore a dire

tutto senza reticenze, ad affidare al segno intenzioni precise,

senza poter rifugiarsi nelle allusioni, fin troppo scontate, del

rapporto cromatico. Si confrontino per intenderci le acqueforti

più recenti di Mazzucchi, dove a parlare è il segno, che scava

  e incide la carta, senza tuttavia annientarla, ma

apprezzandone le possibilità espressive, lasciando che i

campi bianchi diventino valori formali oltrechè passaggi di

tono a di colore, con le incisioni di un tempo, dove il segno

veniva costretto a saturare lo spazio, a riempire la lastra, fino

a sconfinare talvolta nella "maniera nera", a non tanto per

esprimere una cupezza d'animo o una tristezza di pensiero,

quanto nell'illusione di aver trovato rimedio all'abissale

vertigine che provoca talvolta il terrore del vuoto.

C'è insomma, per tornare alla pittura, nelle opere più recenti

di Ivano un' ansia di chiarezza che si riassume non solo nel

rasserenamento dei toni a nello sciogliersi dei grumi di colore,

ma anche nell'espandersi delle campiture a in un maggiore

dinamismo delle forme, che finalmente non tendono più a

chiudersi e a spegnersi nel brio, ma dilatano ad invadere e

riempire lo spazio, anche se talvolta può accadere di veder

riaffiorare una qualche reticenza, quasi un pudore a lasciare

esprimere la felicità della pennellata e a non rinnegare del

tutto il ricordo di forme torbide, come di luna in eclisse, e a

consentire che questa pittura conservi il suo fascino arcano

pur abbandonando del tutto la seduzione delle tenebre.

 

Massimo Bertozzi

 

                Tradizione a              contemporaneità

                                        in

                            Ivano Mazzucchi,

                               naif del 2000

                                                                                  di Enrico Bellati

 

La tradizione a la contemporaneità

 

" Il ragazzo appoggiò la bicicletta ad un muretto nel giardino della

villa e, ancora accaldato per la ripida salita, percorse con lo

sguardo l'arco della Versilia che si stendeva laggiù, in basso, con

le sue pinete a gli orli di spiaggie dorate. Una elegante signora

comparve tra i cespugli di fiori a gli chiese: 'chi cerchi?' 'Vorrei

conoscere il Maestro, il pittore...' rispose il ragazzo timidamente,

e pronunciò un nome famoso. Dimostrava si a no quattordici

anni ...."

Così potrebbe incominciare il racconto di uno di quegli scrittori

toscani che in quegli anni,- il 1962,- mettevano tanta luce a tanti

colori nelle loro pagine apparentemente così semplici.

Invece è la descrizione dell'incontro di Ivano Mazzucchi con la

pittura, anzi con la Pittura, che appunto in Toscana, e

massimamente in Versilia sempre ha dimorato con piacere.

Ivano aveva giusto quattordici anni, era nato a Camaiore a da

sempre aveva sgorbiato disegnato a dipinto secondo istinto e, per

un toscano, secondo tradizione.

Il pittore che voleva vedere, era il famoso Cesarino Monti, geniale

esponente di quello stile figurativo tra luminista a colorista che

andava di moda nella un po' facile e postimpressionista pittura

italiana del dopoguerra.

Celebratissimo per i ritratti alle signore della ricca borghesia

milanese a alle personalità dello spettacolo,- la Osìris, il Macario,

il Rascel o il Walter Chiari -ancora allegro a senza la Ava Gardner,

dominanti con un piglio veristico acuto e astuto sulle pareti dei

salotti bene e dei ristoranti più raffinati, era il mito, con villa in

Versilia, sognato da Ivano. quale, con il candore di un piccolo

Parsifal camaiorese, si addentrò nel giardino di Klingsor senza

inviti né presentazioni.

"Il giorno dopo, dietro suo invito,- oggi racconta candidamente

Mazzucchi,- mi trovo nello studio del Maestro, che senza tanti preamboli

mi mette sul suo cavalletto una tela bianca e mi dice di fare quello che

voglio. Vedo intorno a me i suoi lavori ed io cerco di fare una figura che

si avvicini in qualche maniera al suo mondo. Il suo giudizio: 'Da domani

vieni in studio'."

Tempi evidentemente felici, quelli, in cui i rapporti erano forse

laconici ma così gravidi di conseguenze. Tempi in cui c'erano

ancora i "maestri" che potevano permettersi di dire a un ragazzo

'vieni in studio' come per secoli in Toscana si era fatto. E in cui

ragazzi che sognavano alto, più che spremersi alla ricerca di una

originalità al di sopra di ogni riferimento, amavano sottomersi al

pollice di un maestro alla cui ombra maturare il proprio talento.

E' un incipit, questo, necessario per capire il retroterra di una

pittura attualmente tanto lontana da questi esordi.

 

O meglio ancora per capire, tramite la sua pittura, il retroterra di

un artista, interessante perché racchiude in sè due aspetti opposti

e contraddittori della cultura e dell'arte e anche del costume,

quindi della cronaca e della storia,- dei nostri anni così tumultuosi

e così già codificati: la tradizione e la contemporaneità.

La storia di Ivano Mazzucchi merita però di essere seguita anche

nei suoi sviluppi

Sviluppi che furono i lunghi anni di pittura alla bottega dura e

stimolante di Cesarino Monti,- con episodi gustosi come il bel

ritratto di dama commissionato da un affettuoso figlio e chiesto

in copia da un fratello altrettanto affettuoso: l'originale fatto dal

maestro e la replica fatta dal discepolo, ma così somiglianti, così

ben fatti, e così simili che lo stesso maestro non riesce a distinguerli,

e salomonicamente li firma entrambi,oppure i soggiorni itineranti

in varie parti d'Italia, come gli antichi pittori, dipingere pareti

in ville lussuose o in uffici sfarzosi. Sviluppi che segnarono anche

lo sbarco del giovane Mazzucchi a Milano, la città economicamente

e culturalmente più aperta e dinamica d'Italia, nel momento della sua

consacrazione a "capitale morale" del Paese. Una Milano

effervescente, dove il nostro si inserisce però poco o niente attratto

dalle nuove tendenze artistiche, dalle neoavanguardie che pure

agitavano qualche piccolo ghetto, marginali circoli culturali,

scalcinate sezioni di partito, osterie e baretti nei rioni come l'Isola

o il Garibaldi.

 

Sempre in bottega con Cesarino Monti, più che mai amato nel

 tradizionale milieu ambrosiano, il giovane artista militante nei

ranghi della tradizione si iscrive alla Accademia di Brera, e Monti

lo presenta a Franco Russoli, direttore delta Pinacoteca di Brera

e critico straordinario nel panorama pur ricco degli anni '60, che

diventa, purtroppo per poco, il suo nuovo punto di riferimento.

Per poco a purtroppo perché Franco Russoli muore

 improvvisamente nel 1974, lasciando Ivano (che sotto quella nuova

e più avanzata influenza si era affrancato dal legame con il suo

primo mèntore) orfano di maestri e di riferimenti, in una crisi

così profonda che gli fa abbandonare temporaneamente la pittura.

Ed a questo punto nell'anima dell'ex piccolo Parsifal di Camaiore

germoglia, nella ricchezza e nei fermenti delle brume milanesi,

forse con la complicità dell'amore a del matrimonio, una seconda

e inaspettata dimensione: la contemporaneità.

 

Rapido e abile di mano, duttile e navigatore come chi è nato tra

Toscana a Liguria, dalle ceneri del giovane pittore (peraltro dopo

un duro tirocinio a Brera e poi alla Accademia Albertina di Torino,

con lo spicco di un Premio Avondo vinto di sfida e di ripicca

contro 1'ottusità arrogante di un codino professore meneghino)

nasce un giovane scenografo, che debutta nei modesti teatri di

posa del cinema milanese, poi nei più scintillanti palcoscenici del

varietà e infine decolla al Lirico al Filodrammatici e al tempio scaligero.

 

Ma ben presto il fiuto per l'arte figurativa rianimato dal soffio

della contemporaneità, fà scoprire a Ivano Mazzucchi nuove strade

da battere: la scenografia per la televisione e per i mass-media,

per la pubblicità, per l'editoria, e perfino quella quasi clandestina

ma inebriante nicchia che è la scenografia per gli interni delle

fastose feste dei miliardari, meglio se arabi con yacht, quei "cascioggi"

assatanati dall'effimero spettacolare per pochi intimi, di cui furono

insuperati apripista sempre altri toscani, i Bibiena.

 

Naif

 

Ma in quella "contemporaneità", insidioso per chi era cresciuto a

pane e tradizione, evidentemente si nascondeva un male sottile.

Era una contemporaneità fata Morgana: con una mano porgeva

successo al giovane artista che, casco sul volto e tuta di pelle nera,

correndo in moto da uno all'altro dei capannoni della banlieu

industriale, si estenuava evocando spettacolari scenografie, ma

con l'altra mano gli rubava l'anima, lo seduceva lontano dalla

verità della pittura.

In ogni destino parsifaliano, per minimo che sia, scatta sempre

l'attimo della verità, la riappropriazione di sè.

I fatti, in questi contesti, hanno sempre un rilievo marginale: sono

occasioni, sintomi, gocce che fanno traboccare il vaso piuttosto

che drammi o illuminazioni.

Il meccanismo implacabile scattò anche per Ivano Mazzucchi, che

concluse la sua lunga crisi di pittore in esilio da se stesso gettando

la tuta di pelle nera e il casco alle ortiche, e voltando le spalle alla

capitale dell'immagine in Italia, per ritornare alla minuscola patria 

versiliese.

 

E qui compì il gesto che ratifica il naif per vocazione, il gesto della

purificazione e della rinascita dalle proprie ceneri. Racimolò tutte

le opere nate nel solco della tradizione, nella emulazione e nella

competizione con il virtuosismo di Cesarino. Parecchie ne comperò

o con insistenza le riottenne per amicizia e, certo non memore del

parossismo di Rouault o di Bacon, ma morso da uno strazio

autopunitivo, da una lacerazione oscura e irrefrenabile di violenza

pari a quelle illustri esplosioni, le distrusse. Non in modo tanto

clamoroso, anzi, con terribile discrezione. Senza testimoni.

Di quel primo Ivano, dunque, resta pochissimo, quasi nulla: un

tondo con una misteriosa testa di fanciulla ("Laura") dallo sguardo

sperduto; un "Autoritratto" di quel tempo, già non più giovane, in

cui si guarda fisso con l'autoironia del "e ora, che fare?" nella piega

accennata delle labbra; a infine qualche residuo felice di mano ma

non significativo per costruire il racconto di un "primo Mazzucchi".

 

Cambio di città, cambio di casa, cambio di mestiere, cambio

di vita. Forse era un nuovo giorno, ma avrebbe potuto essere la notte.

Non lo fu per una questione di bizzarre circostanze. Approdate

al fatto che Ivano Mazzucchi, dopo anni di silenzio pittorico,

cadde nell'orbita di una delle più indefinibili, a sorprendenti,

personalità artistiche che lungo la battigia versiliana hanno scelto

chi per nascita chi per chiamata) di giocarsi la partita contro il

tempo nello scenario della cultura a dell'arte.

II pittore Lorenzo D'Andrea, versiliano sia per chiamata che per

nascita, ancora giovane ma notissimo in Italia e forse maggiormente

affermato all'estero,- specie nei paesi di cultura tedesca, dove lo

spessore e le sottigliezze della sua pittura trovano ampie affinità

culturali,- riprese per così dire il filo caduto di mano al grande

Franco Russoli, da cui era stato a suo tempo prediletto con amicizia

e consigli, e lo porse a Ivano. Il cerchio del destino sempre si

chiude, grazie alla magia di personalità vocate.

Ivano comprese il segno, ruppe il voto del silenzio, e ricominciò

da zero, con il furore a con il fervore del naif.

Ma un naif contaminato dal morso nella mela della

contemporaneità, un naif che, novello Rousseau od emulo di

Utrillo o discepolo di Cesarino Monti che fosse, non poteva più

guardare alla tela come allo spazio di una cartolina spedita al

proprio cuore.

Non dalla cultura, dunque, ma dalla intossicazione patita nella

frenesia dissacrante urbana nasceva la nuova ricerca di Mazzucchi,

e si rafforzava sotto la sferza e il pungolo astuto di D'Andrea, che

lo stimolava con provocazioni e sfide come un sufi che vuole

spingere 1'adepto ancora esitante verso l'asprezza della verità.

Allora e così, in un mondo tanto lontano dalle sue serene ma

illusorie origini, tanto diverso dalle sicurezze futili del suo successo,

si apriva il cammino del "secondo" Ivano Mazzucchi,- che in realtà è il primo.

 

"Angeli Crocefissi" a "Interni & Esterni Umani"

 

Abituato dalla frequentazione con Lorenzo D'Andrea a considerare

la ricerca artistica in modo consequenziale, cioé legata a un leit

motif che si alimenta dalle sue stesse possibilità e nei suoi sbocchi

(come non rammentare la preziosa riflessione fornita dal ciclo "I

Labirinti" di D'Andrea?), Ivano Mazzucchi dopo un breve ma

attivo periodo di ricerca aperta, di esplorazione,- la cui

connotazione fondamentale fu un ossessivo rifiuto della figurazione

"tradizionale",- imbastisce il primo dei suoi cicli organici, le

"Emersioni" (1994).

 

Il nome del ciclo, come in altri illustri precedenti (viene spontaneo

pensare, come esempio, alle "Forme spaziali" fontaniane) era

indicativo di una volontà espressiva non-astratta, anche se il segno,

la materia a il gesto si muovevano in un ambito sospeso tra

espressionismo astratto e informale. Ma in quella volontà

espressiva, in quella radice nascosta figurativa, consisteva il legame

che Mazzucchi conservava con la sua anima tradizionale, anche

se i suoi titoli ("Emersione 09: Frattura" per un quadro con una

forma volumetrica rotta da uno spacco, oppure "Emersione 16:

Attività all'alba" per una tela con vibranti effetti di controluce nel

cielo) puntavano più al suggerimento di sentimenti o emozioni

piuttosto che a proporre figure riconoscibili.

Dopo questa fase di lavoro febbrile, è però il ciclo degli "Angeli

Crocefissi" (1995) quello che dà la misura delle possibilità pittoriche

del mondo interiore di Mazzucchi.

"Angeli", intesi come creature presenti, corporali, seppure e sebbene

celati, dissimulati nella livida e vischiosa realtà attuale, da cui li

estrae, per grazia d'arte, il pittore.

"Crocefissi", perché inchiodati a una sofferenza, quella che ci viene

rivelata dal lirico tormento del colore, in cui possiamo/dobbiamo

identificare anche la nostra sofferenza personale, la nostra

condizione esistenziale di angeli crocefissi.

Non sono certo, come dire?, gli Angeli berlinesi cosi delicati, umani,

intelligenti di Wim Wenders. No, sono Angeli povericristi (come

si dice a Milano), vittime più del destino che di altre creature,

intravisti da Ivano tra le piogge periferiche dei paesaggi che

furono di Sironi con atmosfere forse meno materiche e meno acide

di quelle di Mazzucchi, ma altrettanto solitarie e struggenti.

In questo ciclo, la abilità pittorica si fà più evidente, raggiunge

risultati estetici più raffinati.

 

 

Forse più raffinati anche del più recente ciclo "Interni & Esterni

Umani ' (1996 / 1997), un ciclo molto forte, in cui quel "qualcosa"

che, non per cultura ma per visceralità, apparenta la aggressione

pittorica di Mazzucchi ai Bacon o ai Sutherland, emerge in modo

provocatorio, svelando quel dato di fondo espressionistico/surreale

che gli stessi Bacon e i Sutherland sempre hanno rinnegato.

Anche Ivano Mazzucchi non ama essere tacciato di cripto-

surrealismo, eppure il germe c'è anche in lui.

Ed emerge, complicato ma evidente, soprattutto nei quadri dei

"personaggi", ovvero negli "Interni Umani", in cui anche i titoli,

ancora una volta, sono la spia di una volontà espressiva di

narrazione, di storia, di situazione esistenziale che resta l'ancoraggio

al realismo tradizionale e toscano di Mazzucchi. "Interno Umano

di Anna Bolena","Interno Umano di Arcimboldo","Interno Umano di

Gala Dalì" e altri: sono veri e propri ritratti espressionisti / surreali,

con tutte le tipiche allusioni, le ambiguità, i lampi acuti di intuizione

di una invenzione pittorica che, appellandosi alla

"contemporaneità" (la seconda anima di Mazzucchi), tramite lo

scatto dell'immaginario, evita le secche del passato e dei

naturalismi alla Cesarino Monti.

Questi “Interni Umani" vanno infatti oltre i confini del ritratto,

per divenire omaggi, dichiarazioni, riferimenti culturali. Sono le

nostre pulsioni inconsce e quelle razionali, sono i nostri spettri o

le nostre anime culturali che prendono forma pittorica, esattamente

come un tempo "Les Demoiselles d'Avignon oppure "Guernica",

come i personaggi di Matta o quelli di Lam.

 

Strettamente collegati a questi "ritratti", come clima pittorico e

narrativo, sono i quadri dei "paesaggi", cioé gli "Esterni Umani".

Queste opere, tra 1a più recenti dell'intero ciclo, sembrano però

suggerire già una evoluzione: l'atmosfera cupa degli "Angeli

Crocifissi'' a degli "Interni Umani" si dilata, i fondi neri o privi di

luce si aprono con squarci di tramonti su forme/esseri (forse

vegetazioni o forse creature extranaturali?) suggestivamente

illuminati in controluce da un sole cadente,- o già caduto. Riappare

l'azzurro nella parte superiore della tela, dove dovrebbe essere il

cielo.

L'enigma, è vero, persiste, ma si annuncia una estetica meno

dilaniata, una terra desolata eppure con attrattive. Si sente meno

la solitudine, il colore consola.

 

Forse in questa direzione si muovono anche i recentissimi

esperimenti scultorei di Ivano Mazzucchi, quelle forme verticali

("Stele 03","Stele 07" a "Stele 09") che, naif e viandante accoccolato

ai margini del 2000, ci porge recuperandole da un immaginario

arcaico e fuori della storia dell’ uomo, ma in qualche modo

dedicandole al nostro futuro.

Stele: dunque punto di riferimento di luoghi, o di tempi, o di

direzioni, in cui intuiamo un segreto che però ci resta precluso.

Perché, nonostante tutto, l'enigma persiste. E se così non fosse, 

perirebbe l'arte.

 

HOME PAGE